C’era una volta in America: il Guggenheim

C’era una volta la famiglia Guggenheim, una famiglia di ricchi industriali svizzeri emigrata in America. Solomon  R. Guggenheim è il fondatore dell’omonimo museo che, oltre alla celebre struttura sulla Fifth Avenue di New York, consta di due altre sedi: una a Bilbao, nei Paesi Baschi, ed una dalle nostre parti, a Venezia. Peggy Guggenheim, la nipote, è considerata la maggiore collezionista della famiglia. Insieme al suo secondo marito, il pittore Ernst, si trasferisce negli USA intorno al 1942 e qui scopre il giovane Jackson Pollock. Riconoscendo in lui un geniale talento, decide di finanziare la sua attività e lo sostiene economicamente.

E’ proprio Pollock il personaggio principale della storia di oggi, oltre ad essere, ovviamente, uno dei maggiori protagonisti della mostra ospitata presso il Palazzo delle Esposizioni di Roma e dedicata all’avanguardia americana tra il 1945 ed il 1980.
I suoi dipinti sono esposti nelle prime due sale, rispettivamente focalizzate sul decennio 1940-50 e 1950-60.
Nei primi lavori di Pollock sono ravvisabili influenze artistiche provenienti dall’Europa, in particolare per quello che riguarda la corrente espressionista. L’Espressionismo, che in America toccherà il vertice dell’Astrattismo, nasce già in Germania a partire dagli Venti e si tratta di un movimento caratterizzato dalla forte presenza del colore, elemento che diviene lo specchio dell’animo del pittore. Le avanguardie espressioniste hanno però vita breve in un’ Europa oppressa dai regimi totalitari (sotto la dittatura hitleriana vengono per esempio organizzate le cosiddette mostre di “arte degenerata”, in seguito alle quali i dipinti più avanguardisti sono messi al rogo) e sono dunque costrette a fuggire in esilio. La meta preferita sono gli Stati Uniti D’America e la città prediletta è New York. Così si spiega la presenza del cubismo di Picasso e degli intensi colori espressionisti nelle opere giovanili di Pollock. Artista dalla personalità complessa e da un passato che non è da meno, si mostra particolarmente interessato ai linguaggi espressivi dei nativi americani, prendendo da loro spunto per la pratica di dipingere con la tela adagiata al suolo, dove il colore viene calato dall’alto mediante la tecnica del 
dripping (letteralmente “sgocciolamento”).

Jackson Pollock, Circoncisione

Una delle opere che ben ricordo è “Circoncisione”, titolo scelto dalla moglie di Pollock ma assolutamente estraneo alla pratica religiosa ebraica. La nostra storiella ci spiega che il titolo dell’opera, in realtà, vuole sottolineare un sensibile cambiamento nell’arte di Pollock, il quale diventa più maturo ed abbandona ogni tipo di figuratività per privilegiare il totale astrattismo. Si perde così qualsiasi contatto con la realtà oggettiva a favore di una realtà interiore ed irrazionale. La tecnica impiegata dall’artista è quella dell’Action Painting, vale a dire della pittura d’istinto, di gesto, una pittura che prevede l’intero coinvolgimento corporeo. Ecco allora che il pittore smonta la tela dal cavalletto e la adagia a terra, ruotandole intorno e gettando il colore dai barattoli di vernice (vernice industriale che inizia ad essere utilizzata in pittura), dai pennelli, da cannucce all’interno delle quali soffia.  I colori si sovrappongono l’uno sull’altro, ma non si mischiano. Questo è dovuto all’utilizzo della canapa grezza in grado di assorbire maggiormente il colore rispetto alla tela tradizionale.
Inoltre è interessante notare che i dipinti dell’artista, oltre ad essere certamente realizzati di getto ed istintivamente, sono comunque frutto di un progetto, di uno studio, di un disegno mentale ben definito, come dimostrano i numerosi bozzetti preparatori di diversi lavori. L’opera d’arte è per Pollock completa quando lui “sente” di essere giunto alla fine, quando in qualche modo avverte di aver risolto il disegno visualizzato nella sua testa.

Jackson Pollock e l'Action Painting

Ora veniamo ai cosiddetti “valori espressivi”, difficilmente rintracciabili, almeno dal mio occhio inesperto, all’interno di questi lavori. I quadri di Pollock, così come quelli di altri suoi contemporanei, esprimono il subconscio dell’artista, il suo mondo interiore, popolato da figure ed immagini irrazionali, sconnesse. Tale subconscio viene riversato in maniera diretta sulla tela, come se si svuotasse un vaso di sabbia su una tavola di marmo, senza passare per il filtro razionale della mente, senza venire rielaborato dal cervello. L’arte è puro astrattismo, puro irrazionalismo. E’ tuttavia possibile riconoscere degli “archetipi” nei quadri di Pollock, il quale mostra di aver assimilato la lezione dello psicologo Jung. Al contrario di Freud, secondo il quale il subconscio sarebbe qualcosa di assolutamente soggettivo, Jung teorizza che l’inconscio contiene delle impostazioni psichiche innate, degli elementi ricorrenti nei recessi mentali dell’individuo. Degli archetipi appunto.
Al termine di questa storia, il nostro amico Pollock ha ormai conquistato una certa fama negli Stati Uniti. Le sue opere sono richieste nelle gallerie, vengono vendute a prezzi piuttosto elevati. Quando Peggy Guggenheim torna in Europa con tutta la sua collezione, l’artista da lei scoperto e protetto è ora in grado di cavarsela da solo. E lo farà alla grande.

La storia, e la mostra, non si concludono qui.
C’erano una volta in America anche gli anni Sessanta e Settanta, anni in cui nascono svariate ed innovative sensibilità artistiche: partendo dal cosiddetto Astrattismo Geometrico, passando per la celeberrima Pop Art ela MinimalArt(con le conseguenti tendenze Post-Minimal) fino ad arrivare all’Arte Concettuale e al Foto realismo.
Ma non vorrei guastarvi il finale.
Rimando così al sito della mostra

http://www.palazzoesposizioni.it/categorie/mostra-014?explicit=SI

invitandovi caldamente a visitarlo, intanto perché sa fatto il suo (nel senso che è un sito realizzato molto bene, cosa che apprezzo sempre con gioia), ma soprattutto perché illustra approfonditamente le sezioni in cui è suddivisa la mostra, abbracciando l’intero periodo 1945-1980.

La mia rielaborazione personale di quanto ammirato, qualche venerdì fa in occasione di una “visita d’istruzione”, sia solamente quel boccone che stimola l’appetito.

11 risposte a “C’era una volta in America: il Guggenheim”

  1. Complimenti per l’esposizione così puntuale ed invitante!
    Conosco bene le opere di Pollock, che ho apprezzato anche al Guggenehim di NY e sono più che d’accordo con Jung.
    Insegnando arte, trovo grande interesse tra i ragazzi se li si fa cimentare, dopo la “visita guidata”, ad esprimersi nello stile dell’artista.
    Love
    L

    1. Grazie per i complimenti 🙂
      Gran parte del merito è stato della guida, che ha saputo coinvolgermi ed affascinarmi. Così, appena terminata la mostra e rientrata a casa, mi sono fiondata al pc a mettere per iscritto tutto ciò che la mia mente aveva immagazzinato in quelle due ore di spiegazione. Spero si sia rivelato interessante anche per chi è più “estraneo” alla materia.
      E’ un piacere, comunque, scoprire che insegni arte. E’ una disciplina che sto apprezzando sempre di più: sarà che il programma del quinto anno è così interessante…

      Grazie ancora del commento e della visita.
      Un buon fine settimana,
      Scrutatrice

  2. In attesa di recarmi a NY (chissà quando e in quale vita 🙁 ) posso almeno vantarmi di aver visitato più volte la sede del museo di Peggy Guggenheim a Venezia. Un’esperienza meravigliosa al di là delle opere esposte.

  3. Mostra a parte, ma immagini la bellezza del museo unita all’incanto di Venezia?
    Devi assolutamente vederlo, è superlativo!
    Mettiti alla ricerca di biglietti treno/aero a prezzi stracciati ed io prometto prenotazione albergo a carico mio. Certo, con Leo e mamma sarà una dura lotta! Sigh…………………
    Marco

    1. Immagino, immagino. Deve essere fantastico! E non nascondo che la città la rivedrei molto volentieri. Sai, la prima volta che ci siamo stati, abbiamo fatto una vera “toccata e fuga”.
      Non disperare, ci sarà occasione!
      Un bacio e grazie di essere passato 🙂

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