Mission Impossible – Protocollo fantasma [Brad Bird]

Ecco, per iniziare questo post ci vorrebbe proprio che partisse la famosa sigla, quel motivetto che associo sempre al titolo del film.
Ta-ta   ta-ta-ta-ta   ta-ta-ta-ta   ta-ta-ta-ta   ta-ta tatataaaaa tatataaaaa
Okay, ci si è provato. Tentativo malriuscito.

Ma non sono (siete) qui per improvvisare (canticchiare nella vostra testa) sigle più o meno conosciute, bensì per scrivere (leggere) qualcosina riguardo il nuovo episodio del film d’azione più noto di tutti i tempi.
Ethan Hunt è alle prese con una missione di portata internazionale: sventare il lancio di alcune testate nucleari che potrebbero condurre ad una terza guerra mondiale capitanata da Russia e Stati Uniti.
Bazzecole, insomma.
Come è una bazzecola arrampicarsi quasi a mani nude sul Burj Khalifa, il grattacielo più famoso di Dubai nonchè l’edificio più elevato del pianeta. E cosa potrebbe esserci di così complicato, poi, nel salire sul tettuccio di un’automobile in corsa nel bel mezzo di una tempesta di sabbia? O nel tuffarsi in macchina dal settimo piano di un parcheggio, consapevole di correre il rischio di rimanere schiacciati dalla carrozzeria che si frantumerà ineluttabilmente al suolo?
Niente è impossibile, naturalmente.

Scenari mozzafiato – da Budapest a Mosca, da Dubai a Mumbai – per questa avventura al cardiospasmo firmata Brad Bird (grande, nel mondo dell’animazione, per “Ratatouille”, “Gli Incredibili”, “Il Gigante Di Ferro”), che si conclude, come di consueto, e forse un po’ scontatamente, davanti ad una bottiglia di birra.
Certo, non potevano mancare le cosiddette e già citate “americanate”, ma queste, lungi dall’essere esasperate e poco credibili, contribuiscono a rendere il film più godibile che mai.
Ciò che ho maggiormente apprezzato è stata la linearità della trama, assolutamente non dispersiva, ma anzi concentrata, che permette di essere facilmente seguita e di risultare pertanto avvicente.
Una chicca tutta da gustare è la storica miccia accessa al principio del film, proprio in coincidenza con la sigla, la quale, come un filo conduttore invisibile ma infuocato, percorre a ritroso gli eventi più significativi della storia, mostrandocene un assaggio “spot” ancor prima che questi si verifichino.
Insomma, si può affermare che la conclusione venga svelata già dall’inizio della pellicola. Ma cosa importa in fondo? E’ il “tra” quel che più conta. E’ ciò che si snoda in mezzo che vale la pena di essere visto.

Into The White

Svegliarsi la mattina, stiracchiarsi sotto le coperte, stroppicciarsi gli occhi e non avere alcuna intenzione di mettere piedi fuori dal letto.
Poi, sbadigliando, aprire gli occhi e rimanere accecati dal bianco.

Entrare in salotto, ancora in pigiama, sedersi a tavola, davanti ad una tazza di latte fumante.
Poi, gettare lo sguardo al di là delle vetrate e perdersi.
Perdersi in quell’immensa distesa di neve che riveste prati, strade, marciapiedi. E alberi e piante. E tettucci delle automobili e grondaie delle case.

Avvicinarsi alla finestra, intiepiditi dal calore della casa, ma allo stesso tempo infreddoliti dalla sola vista di tutto quel bianco.
Bianco, dovunque. Bianco, a perdita d’occhio.

Avere voglia di tuffarsi in quel candido mare. Ed affondare. E sprofondare.
Non riemergere più.