Diario di viaggio: Carinzia

Non vi avevo annunciato di questo viaggio perché ci sono stati fino all’ultimo dei ripensamenti e non eravamo proprio certi di partire. Ma tant’è. Il 5 gennaio ci imbarchiamo in macchina, carichi di valigie, attrezzatura da sci, mangime e cioccolate (in montagna non possono mai mancare!) e nel primo pomeriggio arriviamo a destinazione: IMG_4560Sonnleitn, località sciistica parte del più famoso e grande comprensorio della Carinzia: Nassfeld Hermagor. Ci vuole poco ad ambientarci al clima – meno freddo di quanto ci aspettassimo – alle piste e agli impianti, se non fosse che un maledetto problemino muscolare alla schiena mi tiene bloccata due giorni dopo l’arrivo. E così la giornata più bella per sciare – di quelle giornate in cui splende sovrano il sole e lo sguardo spazia senza confini da una cima innevata all’altra, mentre le piste risplendono di piccoli cristalli illuminati sotto il cielo terso – me la sono persa. Fortuna nella sfortuna, proprio a Sonnleitn ci rivolgiamo ad uno studio ortopedico e di fisioterapia, dove il canuto Doktor Gerd Köhler mi fa una diagnosi a fronte della mia spiegazione e annuisce sicuro con il capo ad ogni mia parola, come di chi sa il fatto suo. Mi somministra una pDSC 057untura di cortisone nella zona “del delitto” e mi fa tornare il giorno dopo per un controllo, non prima avermi messo distesa su un lettino per la “heating therapy“. Ad ogni modo, non vorrei dilungarmi troppo su questo aspetto della vacanza, quindi volgiamo pagina ad un capitolo più interessante. Nel mio giorno da invalida sfrutto comunque lo Skipass, prendo gli impianti di risalita senza sci ai piedi, ma con i soli dopo sci. Arrivo con mamma, la quale mi fa volentieri da assistente rinunciando ad una giornata sulle piste che comunque non ama, a Tropolach, paesino a 600 metro raggiunto dalla Millenium Express, la cabinovia con il percorso più lungo delle Alpi. Speriamo di trovare un market che venda qualcosa di diverso dai würstel, che invece ci vengono riproposti in tutte le salse e che decidiamo comunque di comprare per l’ultima cena nell’appartamento preso in affitto. Restando in tema “cibo”, ogni viaggio è per noi occasione per DSC 029provare specialità locali, in questo caso carinziane che, come potete immaginare, prevedono (oltre ai würstel) Kartoffeln di vario genere e carne, tra cui la famosa Wiener Schniztel. I maschietti apprezzano molto le Rippalan, le costolette di maiale diffuse largamente anche nel mondo americano, ma che qui pare abbiano un sapore speciale. Con la mamma assaggiamo invece diversi dolci, tra cui lo Strudel di mele (Apfelstrudel), i Krapfen (bomboloni fritti ma molto leggeri, ripieni di marmellata di albicocche) Mohr im Hemd (tortino al cioccolato servito con panna e gelato alla vaniglia) ed un dessert che – credetemi – è davvero terribile! Si tratta dello Germknödel, uno gnocco dolce che a vederlo pare avere un aspetto delizioso, tutto coperto di crema alla vaniglia. Poi però, aperto, rivela al suo interno una composta di prugne con un sapore molto intenso ed una pasta eccessivamente dolce che stomaca al secondo boccone. Per di più, la salsa ala vaniglia, oltre ad essere poco densa per i miei gusti (ma a loro piace così.. “runny“!) è pure troppo zuccherosa ed è guarnita con una polvere nera che sulle prime non identifico.. Mia mamma insiste che si tratta di cacao, ma poi, appena mi collego ad una rete wi-fi, cerco la ricetta su internet e scopro chDSC 069e in realtà parliamo di semi di papavero. Comunque, da non consigliare a nessuno! Infine, la scoperta culinaria più piacevole sono gli Spätzle, in particolare i Käsespätzle, una pasta fresca preparata in un modo particolare e condita con formaggio, cipolla croccante, fettine di speck, servita direttamente in una padellina di ghisa e gratinata. Una goduria, credetemi sulla parola!
E insomma, se oltre alle parole volete credere anche su qualche immagine, eccone qui una serie, dai selfie ai piatti ai panorami delle vette alpine, che ti lasciano sempre e comunque con il fiato sospeso.
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Il sale della terra [ J. R. Salgado e W. Wenders]

Questo blog è diventato monotematico: si parla di lettori, di metropolitane e di cucina. È ora di tornare per un attimo al vecchio stile…

Lo scarso numero di post relativi al cinema non è dovuto ad un calo della mia passione al riguardo, bensì ad una concreta mancanza di occasioni per vedere film di qualità e che vale la pena recensire.
Il sale della terra finalmente è uno di questi. Si tratta di un film documentario che ripercorre la vita e la carriera lavorativa del fotografo brasiliano Sebastião Selgado, artista che purtroppo non conoscevo e dalle cui opere sono rimasta abbagliata, poiché non ho mai visto immagini dotate di una così decisa forza comunicativa incarnata semplicemente da uno sguardo. La costruzione delle inquadrature nel complesso, la scelta dei soggetti, l’umanità che si legge nelle sue fotografie… Sono tutti aspetti che mi hanno lasciato senza parole. In ogni progetto intrapreso con la moglie, sua grande sostenitrice fin dalla gioventù, Salgado adotta una lente di ingrandimento differente per osservare il mondo, ma non si discosta mai dal suo interesse principale: l’uomo. L’essere che tanto attrae la sua attenzione si rivela presto qualcosa che Salgado non si aspetta, si mostra al suo obiettivo sotto un’altra luce, macabra ed agghiacciante. Salgado vuole rendere pubblici attraverso le sue immagini i massacri, i genocidi, le stragi di cui si macchia l’uomo in certi Paesi del mondo, i quali sono trattati da quest’ultimo con un’indifferenza tale da venire relegati alla periferia delle notizie. Solo le testimonianze dirette possono portare alla luce ciò che è sepolto sotto strati e strati di ignoranza. Per citare un esempio, in Ruanda Salgado segue le popolazioni in esodo verso altre regioni ed assiste alla repressione di migliaia di uomini, donne, bambini e anziani, abbandonati ai lati della strada come fossero carcasse vecchie, lungo un percorso lungo chilometri e chilometri. Mentre questo accade in una tale regione del continente africano, i brasiliani connazionali dello stesso Salgado lottano contro la dittatura militare che governa il Paese e mette a tacere nel sangue ogni dissenso. Dopo il viaggio in Africa, la voce narrante di Salgado racconta di essersi ammalata. D’altronde non era così difficile se si trascorrevano anni in mezzo a gente infetta da colera, malaria e malattie simile. Il punto è che Salgado ammette di essersi ammalato non nel CORPO, ma nell’ANIMO. Quello che i suoi occhi hanno visto, il suo cuore l’ha sentito nel profondo: come un proiettile che ti spezza il respiro. L’essere umano è un mostro, una belva, un forziere di morte, sofferenza e dolore. Ad un certo punto la voce dice che in alcune zone del mondo la morte non fa più paura: è considerata semplicemente la continuazione della vita, l’anello finale di una catena che si chiude a dovere. Ho interpretato l’ultimo progetto di Salgado, che il film presenta appunto nella conclusione, come una sorta di riscatto per i mali precedenti, come una cura per guarire da quel cancro dell’anima nato di fronte ai corpi pelle ed ossa fatti in frantumi, spezzati come bastoncini sottili. “Genesi” è il titolo del percorso ed è la prima volta in cui Salgado si misura con fotografie paesaggistiche e naturalistiche, essendo sempre stato un artista impegnato, sociale. Se il suo più grande interesse è l’uomo, allora perché rivolgersi alla fine della propria carriera alla natura? Un po’ perché portato dalla voglia di risollevare le sorti della fattoria/tenuta paterna, un po’ perché di fronte alla visione di ciò di cui l’uomo è bestialmente capace, la natura non può che essere un antidoto. Se l’uomo è un veleno che procura morte, la natura è una mano generosa che dona vita e che regna incontaminata, come la sola potenza cui ubbidire. E la natura non si ribella se la si asseconda e non la si piega ai propri bisogni. La natura sa essere maligna ma non ha esperienza di odio, avarizia, orgoglio, gelosia. La purezza che Salgado vede nelle vite stroncate dalle guerre è la stessa che ritrova in uccelli, elefanti, pinguini e tartarughe, con la differenza che nessuno di loro sa cosa vuol dire il Male. Forse neanche noi potremo definirlo con certezza, ma questa pellicola ci aiuta a farci un’idea.
Il film partiva già con un duplice vantaggio nei miei confronti: amante del cinema ed appassionata di fotografia, sapevo già che avrei dovuto aspettarmi un compromesso interessante e mi chiedevo solo con curiosità in che modo venisse declinato. E non sono rimasta delusa, anzi. Non sono proprio “rimasta” in nessun senso. Perché l’effetto che la pellicola ha suscitato nel mio animo è stato tutt’altro. Mi avevano detto, a proposito del film, che ti lasciava qualcosa dentro, una sensazione di amarezza mista a serenità, che sarebbe stata difficile da estirpare. Ma non immaginavo tanto. È stato come sentirsi rinascere, scoprire il mondo per come in effetti è, aprire gli occhi su una realtà di cui tutti siamo purtroppo all’oscuro e che sembra quasi non esistere, quasi non far parte della Vita. Sicuramente non si rimane nè delusi, nè entusiasti e nè indifferenti a quelle immagini che scorrono sullo schermo. Non si rimane e basta. Si cambia.