The Young Pope [Paolo Sorrentino]

Come farti amare un personaggio. Come farti cambiare la tua opinione su un interprete.
Sorrentino ci è riuscito, con il suo tocco inconfondibile e la sua maestria così leggiadra, ma altrettanto intensa dove occorre.
The Young Pope ci è riuscito e non posso dire che non mi abbia colpito, lasciandomi dentro come la traccia di un magnete che cerca la sua metà perfetta.
L’assenza di trama de La Grande Bellezza è qui sostituita da un ricco groviglio di eventi presentati in ogni caso con sofisticatezza ed eleganza di forma.
Le serie devono, per forza di cose, avere un filo conduttore e seguire più eventi contemporaneamente, non terminandoli tutti nello stesso momento. I cosiddetti cliff-hanger, che mantengono lo spettatore appeso ad un filo, pronto a gettarsi nel vuoto da un momento all’altro.
In un film è poi più facile giocare con le immagini, creare tutta una storia su di loro, approfittarsi della interminabile lunghezza di alcune scene per indugiare su paesaggi e personaggi.
In una serie – e me ne sono resa conto in questa occasione, non essendo io mai stata una amante degli episodi a puntate – una simile tecnica è tanto più difficile quanto ardita da praticare.

The Young Pope è dopotutto molto di più di una serie, molto di più di un racconto ad episodi. È esercizio di stile in alcuni punti, trattato filosofico in altri. Un quadro, una poesia, una rappresentazione scenica. Opera musicale, sogno, riflessione religiosa e provocante.
Il cast stellare che Sorrentino ha scelto per prendere parte alla sua impresa è di indescrivibile bravura, da Orlando alla Keaton, i volti forse più noti, per passare a Shepherd e a Cromwell, fino ad arrivare in maniera più scontata a Jude Law, protagonista di una enorme evoluzione, densa di assoluta bellezza ed umanità.
Da Papa fastidioso e provocante, irritante e controverso, ad una figura rigida ed ortodossa, intransigente e conservatrice – “Dobbiamo tornare ad essere proibiti, inaccessibili” – fino a sprigionare un amore toccante nei confronti di Dio e degli uomini, frutto di un approdo alla dolcezza, di una riscoperta del bene e dell’immensità della vita.
Perché il Papa, prima di essere il capo della Chiesa, prima di rivestire il ruolo di Sua Santità, è innanzitutto un uomo, un peccatore. Un essere umano con le sue fragilità, i suoi traumi infantili, i suoi dubbi affascinanti sull’esistenza di Dio, i suoi vizi terreni. E solo un uomo come tutti noi può utilizzare tali parole, frasi di incomparabile bellezza per descrivere cos’è Dio e cosa significa l’amore. Parole unite ad immagini emozionanti, accompagnate da una musica ancora più sconcertante, che ti scuotono e al tempo stesso ti incollano allo schermo, rimangono con te e dentro di te, inducono alla riflessione e a proferire: “Dio, ne voglio ancora, ne ho bisogno“.
E mi sono convinta che nessuno meglio di Jude Law avrebbe potuto interpretare una simile figura: il suo volto e le sue movenze cambiano sensibilmente di puntata in puntata per assecondare la maturazione di un uomo che cresce interiormente una volta fatto Papa, diventa adulto dentro pur rimanendo ancora giovane fuori. Ma è forse più saggio di tanti altri cardinali intorno a lui.
E il titolo anche è una bella e buona provocazione: cosa possiamo aspettarci da un Papa giovane? Sarà all’altezza di un ruolo così impegnativo?
Ed ecco che spiazza tutti, dall’inizio alla fine, da quando non immaginiamo una tale rigidità ed inflessibilità da parte di un giovane, a quando non ci aspettiamo la profondità teologica e l’incommensurabile passione per Dio che invece esprime. In tutti i sensi, una rivelazione.

Come togliermi dalla testa il suo volto così duro, con lineamenti severi ed arroganti, addolcitosi poi in un viso quasi da bambino, con occhi blu profondi di speranza?
Come dimenticare quel senso di disagio avvertito durante la visione delle prime scene, in cui non riuscivo a trovare la mia posizione sul divano e mi mordicchiavo le labbra poiché quello che vedevo non mi piaceva fino in fondo?
Come poi spiegare lo sviluppo profondo e radicale che il personaggio segue e che muta completamente la mia opinione su di lui, trasformandolo in un giudizio benevolo, di totale accordo e solidarietà fino anche a giungere alla venerazione?
Perché questo è, a mio parere, lo scopo ultimo di Sorrentino. Non si tratta di essere provocante, sconvolgere luoghi comuni o mostrare gli oscuri segreti di una Chiesa in crisi.
No signori, è molto di più.
Si tratta di far crescere lo spettatore insieme a quell’uomo sullo schermo in cui inevitabilmente ci si riconosce. Si tratta di riscoprire le proprie convinzioni sulla vita, sull’amore, in un percorso di personale redenzione nel quale siamo accompagnati per mano da un Papa che non è una figura irraggiungibile, bensì un esempio cui tutti possiamo aspirare.
Essere uomini vuol dire essere peccatori. E questo è in fondo il modo più profondo per conoscere la grandezza di Dio.

Big Eyes [Tim Burton]

Gli occhi sono lo specchio dell’anima.

ForsPoster Big Eyese la citazione che fa da fil rouge a tutto il fim è sentita e risentita, ma pronunciata da Amy Adams di fronte i suoi furtivi dipinti assume un significato tutt’altro che abusato. I due elementi fondamentali del plot vengono fuori in questa frase e Tim Burton li indaga a fondo, li rende denominatore comune di tutte le scene, seppur non così palesemente.
L’anima.
Che se non emerge, a mio gusto, dagli occhioni dei bambini, soggetti innumerevoli dei quadri di Margaret, viene ben dipinta da un altro pittore: il regista. Tim Burton non si lascia sedurre da una esaltazione facile e scontata dei dipinti della sua protagonista, nonostante l’amicizia effettiva con la reale pittrice ancora in vita, ma si sofferma su una figura infantile tutt’altro che marginale. Ispirazione e soggetto dei primi lavori di Margaret, Jane soffre della sua solitudine, della mancanza di un padre e della lontananza – più emotiva che fisica – della persona con la quale vorrebbe condividere il suo tempo: la mamma. La vede continuamente in fuga, rapita da uomini che evidentemente covano secondi fini, debole e sottomessa, privata delle cose cui tiene di più al mondo: la sua arte e la sua bambina.
Jane cresce, è l’unico personaggio che forse vive la maturazione più profonda, rendendosi conto di essere sempre stata a conoscenza del segreto della mamma pur fingendo di non saperne nulla. Accompagna sempre Margaret, è al suo fianco anche quando non vorrebbe, e, da un’analisi più profonda, potrebbe essere lei a suggerire alla madre quel senso di abbandono e solitudine che circonda gli orfanelli nelle sue opere.
Gli occhi.
Sono gli occhi di Margaret, interpretata con spessore da Amy Adams che si porta  a casa anche un Golden Globe, occhi attenti, concentrati, mentre dipinge di nascosto le “persone” sulla sua tela. Occhi innamorati ed estasiati quando cade tra le braccia del millantatore Walter Keane, maestro di retorica ed eloquenza, tranne che dell’arte di cui si finge creatore, rivendicandone la paternità. Occhi disperati e ricchi di lacrime quando non riesce a conservare il suo segreto, impaurita dalla reazione del marito, affranta per non aver saputo amare a dovere sua figlia. Infine, occhi increduli dinanzi alla corte, durante il processo in cui tenta – e riesce – di dichiarare al mondo intero di essere l’autrice dei lavori che hanno conosciuto il successo planetario. Ancora una volta è affiancata da Jane, cui stringe forte la mano più volte, cui rivolge sguardi affettuosi che sembrano voler recuperare tutto il tempo perduto in quegli anni.
E di Keane? Che dire di lui? Potrei formulare un giudizio poco oggettivo, influenzata dalla stima che provo per Waltz, un mostro sacro in ogni ruolo a mio parere. Stima che è iniziata con Inglorious Bastards, ma questa è un’altra storia… E poi qui parliamo di personaggio, mica di interprete! Comunque Tim Burton sceglie bene, perchè Walts calza Keane a pennello…
E’ in ogni caso complesso, da parte dello spettatore, formarsi un’opinione coerente su di lui. All’inizio si ha qualche sospetto, specie nella scena della proposta di matrimonio, troppo avventata, indice di scarsa affidabilità… Poi però tutto torna ad essere perfetto, lei è innamorata, lui pure, tanto che si prodiga in interminabili elogi dei quadri della moglie adorata, oltre che impegnarsi concretamente per sostentare la famiglia. Sì, sembra fin troppo orgoglioso dei successi che mano a mano i lavori di Margaret collezionano, ma in fondo lo fa per venderli, perchè Margaret è ancora timida ed inesperta di come funziona il mondo degli affari. Lui invece ha fiuto, conoscenza, ottima parlantina, la stoffa da vero venditore, E comunque tutti i guadagni vengono condivisi, lui non si intasca niente, fa tutto sotto la luce del sole. Pare tutto concordato, un patto silente tra lei e lui, lei rinchiusa nello studio a dipingere, lui impegnato in televisione e sui giornali e rilasciare dichiarazioni non sue. O almeno, sue ma totalmente infondate. La storia torna un po’ a puzzare nel momento della scoperta di un’altra scomoda verità sugli scorci cittadini che Keane faceva risalire al suo periodo parigino… Si inizia dunque a guardare a quest’uomo come un vero calcolatore privo di sentimenti e buone intenzioni, con un ottimo naso per gli affari – niente da dire – ma con un’anima abietta e insulsa. Se si poteva giustificare pensando che magari era stato il successo a dargli alla testa, non si riesce comunque a spiegare il suo esordio nel mondo dell’arte…
L’unico ricordo che il regista sembra lasciarci è quello di un pupazzo urlatore, cialtrone e con occhi – magari grandi come quelli del titolo sì – che guardano solo il denaro. Non poteva dunque mancare la sua uscita di classe, nella scena finale del film, accompagnato dalle esagerate moine che lo contraddistinguono, goffi e maldestri tentativi di un truffatore che ha costruito le fondamenta del suo impero su una frode.
Film da guardare con occhi ed anima aperti.