Il sale della terra [ J. R. Salgado e W. Wenders]

Questo blog è diventato monotematico: si parla di lettori, di metropolitane e di cucina. È ora di tornare per un attimo al vecchio stile…

Lo scarso numero di post relativi al cinema non è dovuto ad un calo della mia passione al riguardo, bensì ad una concreta mancanza di occasioni per vedere film di qualità e che vale la pena recensire.
Il sale della terra finalmente è uno di questi. Si tratta di un film documentario che ripercorre la vita e la carriera lavorativa del fotografo brasiliano Sebastião Selgado, artista che purtroppo non conoscevo e dalle cui opere sono rimasta abbagliata, poiché non ho mai visto immagini dotate di una così decisa forza comunicativa incarnata semplicemente da uno sguardo. La costruzione delle inquadrature nel complesso, la scelta dei soggetti, l’umanità che si legge nelle sue fotografie… Sono tutti aspetti che mi hanno lasciato senza parole. In ogni progetto intrapreso con la moglie, sua grande sostenitrice fin dalla gioventù, Salgado adotta una lente di ingrandimento differente per osservare il mondo, ma non si discosta mai dal suo interesse principale: l’uomo. L’essere che tanto attrae la sua attenzione si rivela presto qualcosa che Salgado non si aspetta, si mostra al suo obiettivo sotto un’altra luce, macabra ed agghiacciante. Salgado vuole rendere pubblici attraverso le sue immagini i massacri, i genocidi, le stragi di cui si macchia l’uomo in certi Paesi del mondo, i quali sono trattati da quest’ultimo con un’indifferenza tale da venire relegati alla periferia delle notizie. Solo le testimonianze dirette possono portare alla luce ciò che è sepolto sotto strati e strati di ignoranza. Per citare un esempio, in Ruanda Salgado segue le popolazioni in esodo verso altre regioni ed assiste alla repressione di migliaia di uomini, donne, bambini e anziani, abbandonati ai lati della strada come fossero carcasse vecchie, lungo un percorso lungo chilometri e chilometri. Mentre questo accade in una tale regione del continente africano, i brasiliani connazionali dello stesso Salgado lottano contro la dittatura militare che governa il Paese e mette a tacere nel sangue ogni dissenso. Dopo il viaggio in Africa, la voce narrante di Salgado racconta di essersi ammalata. D’altronde non era così difficile se si trascorrevano anni in mezzo a gente infetta da colera, malaria e malattie simile. Il punto è che Salgado ammette di essersi ammalato non nel CORPO, ma nell’ANIMO. Quello che i suoi occhi hanno visto, il suo cuore l’ha sentito nel profondo: come un proiettile che ti spezza il respiro. L’essere umano è un mostro, una belva, un forziere di morte, sofferenza e dolore. Ad un certo punto la voce dice che in alcune zone del mondo la morte non fa più paura: è considerata semplicemente la continuazione della vita, l’anello finale di una catena che si chiude a dovere. Ho interpretato l’ultimo progetto di Salgado, che il film presenta appunto nella conclusione, come una sorta di riscatto per i mali precedenti, come una cura per guarire da quel cancro dell’anima nato di fronte ai corpi pelle ed ossa fatti in frantumi, spezzati come bastoncini sottili. “Genesi” è il titolo del percorso ed è la prima volta in cui Salgado si misura con fotografie paesaggistiche e naturalistiche, essendo sempre stato un artista impegnato, sociale. Se il suo più grande interesse è l’uomo, allora perché rivolgersi alla fine della propria carriera alla natura? Un po’ perché portato dalla voglia di risollevare le sorti della fattoria/tenuta paterna, un po’ perché di fronte alla visione di ciò di cui l’uomo è bestialmente capace, la natura non può che essere un antidoto. Se l’uomo è un veleno che procura morte, la natura è una mano generosa che dona vita e che regna incontaminata, come la sola potenza cui ubbidire. E la natura non si ribella se la si asseconda e non la si piega ai propri bisogni. La natura sa essere maligna ma non ha esperienza di odio, avarizia, orgoglio, gelosia. La purezza che Salgado vede nelle vite stroncate dalle guerre è la stessa che ritrova in uccelli, elefanti, pinguini e tartarughe, con la differenza che nessuno di loro sa cosa vuol dire il Male. Forse neanche noi potremo definirlo con certezza, ma questa pellicola ci aiuta a farci un’idea.
Il film partiva già con un duplice vantaggio nei miei confronti: amante del cinema ed appassionata di fotografia, sapevo già che avrei dovuto aspettarmi un compromesso interessante e mi chiedevo solo con curiosità in che modo venisse declinato. E non sono rimasta delusa, anzi. Non sono proprio “rimasta” in nessun senso. Perché l’effetto che la pellicola ha suscitato nel mio animo è stato tutt’altro. Mi avevano detto, a proposito del film, che ti lasciava qualcosa dentro, una sensazione di amarezza mista a serenità, che sarebbe stata difficile da estirpare. Ma non immaginavo tanto. È stato come sentirsi rinascere, scoprire il mondo per come in effetti è, aprire gli occhi su una realtà di cui tutti siamo purtroppo all’oscuro e che sembra quasi non esistere, quasi non far parte della Vita. Sicuramente non si rimane nè delusi, nè entusiasti e nè indifferenti a quelle immagini che scorrono sullo schermo. Non si rimane e basta. Si cambia.

Sotto i riflettori.

E’ un pomeriggio come tutti gli altri, di quelli in cui sei bloccata nel traffico e non vorresti altro che tornare a casa. In quel pomeriggio squilla il cellulare. Chiamata inaspettata. Numero privato.
“Sto guidando, scusi. Richiamo tra pochi minuti”
Per fortuna sei quasi arrivato a destinazione. Per fortuna trovi anche parcheggio. Ti fermi, liberi te stessa dalle cinture ed i tuoi piedi dai pedali e ricomponi il numero. La risposta dall’altro capo del telefono arriva immediatamente.
“La contattiamo dagli studi Rai per comunicarle che è stata selezionata come concorrente per la nostra trasmissione”.
Incredulità, stupore. Scambio veloce di dati ed informazioni tecniche. Riceverà in seguito una mail con maggiori dettagli, mi viene detto. Ed intanto, in fibrillazione, sondo il terreno tra famiglia ed amici per decidere chi sarà il mio accompagnatore.

Il giorno della convocazione, un assolato lunedì mattina, arriviamo agli studi DEAR con largo anticipo. Ci fanno il pass ed entriamo. Ha inizio così l’emozionante fase del pre-puntata.
Siamo subito condotti in un camerino dove svuotiamo le valige (dovevamo portare 3 cambi d’abito a testa!) e facciamo conoscenza con gli altri concorrenti. L’atmosfera è amichevole e rilassata; solo più avanti inizierà a farsi sentire la tensione. Gli accompagnatori sono paradossalmente più emozionati di noi concorrenti. Il primo step del pre-puntata è il colloquio conoscitivo, due semplici chiacchiere per rompere il ghiaccio e rendersi spigliati davanti alle telecamere. Poi via al trucco e parrucco! Tornati nel camerino ci fanno mangiare, sebbene la fame sia l’ultima sensazione che avvertiamo in quel momento, e ci fanno indossare uno dei look che nel frattempo le costumiste hanno scelto per noi.
Ci siamo quasi. Manca solo la fase di copertura dei marchi sui nostri abiti (per evitare pubblicità esplicita) e chiaramente la foto di gruppo nel camerino.
Ma ora si scende in studio.
Ancora un briefing su quello che accadrà e sul come dovremo comportarci in trasmissione, oltre ad una serie di raccomandazioni sull’essere sempre sorridenti. C’è poi la prova microfono e finalmente l’entrata in studio, di un bianco abbagliante e di una luminosità accecante. Almeno così mi è sembrato. Ma probabilmente, presa dall’emozione, dall’ansia e dalla tensione di andare in onda, non avevo percezioni oggettive della realtà che mi circondava.
Adesso è veramente tutto pronto. Si inizia a girare. Non stiamo più scherzando. Siamo in televisione, nel programma preserale più seguito di tutta Italia.
La telecamera punta su di te, Carlo si rivolge a te, il pubblico da casa è concentrato su di te. E allora vai con un sorriso e si aprono i giochi.

Il resto, se siete soliti guardare l’Eredità a quell’ora, lo conoscete già.

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