Across The Universe [Julie Taymor]

Across The Universe non è musical che si può vedere a cuor leggero.
Non lo definirei nemmeno un musical, ma piuttosto un’opera artistica musicata e filmata, visto che moltissime immagini dagli alti contrasti e dai forti colori sembrano uscite dallo sfogo creativo di un Pollock, un Wahrol o persino un Fontana (la scena a ritmo del pezzo Strawberry Fields mi ha ricordato tremendamente il taglio rosso nella tela).
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Spesso paragonato a Moulin Rouge, a mio parere ha qualcosa di più e, per la tipologia di temi trattati, mi è venuto di assimilarlo ad un altro grande musical che ha a che fare con i capelli… No, non parlo di Grease, bensì di Hair, ambientato nell’America degli anni ’60 durante quell’intenso periodo testimone della nascita della cultura hippie, come risposta pacifista ed alternativa alla violenza efferata della guerra del Vietnam.
Across The Universe prende le mosse dalla stessa fase storica e la incornicia magistralmente con una colonna sonora di tutto rispetto. I protagonisti non possono che chiamarsi Jude e Lucy, nomi che compaiono in due note canzoni dell’epoca composte da certi Beatles, apparentemente popolari tra i giovani…
Sono in effetti i loro brani ad essere i protagonisti. E nonostante questo, rimane spiazzante realizzare quanto tutta la musica sia perfettamente parte integrante del film, come se, indipendentemente dal cinema che è arrivato dopo, quella band inglese avesse da sempre voluto raccontare una storia. Una storia fatta di incontri, amore, sconfitte, rimpianti, talvolta di denuncia e di proteste,  proprio mentre oltreoceano nasceva la cultura dei figli dei fiori e mentre la loro immagine veniva quasi mitizzata da folle isteriche di adolescenti. L’America dell’epoca, in cui questi ragazzi di Liverpool venivano venerati, vedeva infatti al contempo la fioritura della pop art ed il trionfo dei movimenti pacifisti contrapposti alla guerra forse oggetto di più critiche e disaccordo da parte di un’intera nazione. Il richiamo di Uncle Sam che incombeva sui giovani americani in età da soldato non poteva che essere, già in partenza, una condanna a morte dichiarata.
Allo stesso tempo è affascinante pensare come la regista abbia potuto modellare le scene solo ispirandosi alla musica, per farle calzare a pennello con le parole cantate dai personaggi in gran parte del film.
È straordinario riuscire a costruire una trama basandosi su delle canzoni, dando a queste pieno potere narrativo ed affiancandole ad immagini forti ed impattanti, scene dal sapore onirico quasi prive di dialoghi non musicati.
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Musica e immagini sono i due elementi cardine di questa opera, poichè dotate di una forza evocativa enorme, unita alla recitazione ricca di espressività degli attori protagonisti e non: gli uomini con quel taglio di capelli lungo, dettato dalla Beatlemania, e le donne con lo stile tipico degli anni ’60, colorato, vivace, floreale.
In certi momenti, come in parte potete già intuire, non sembra di stare seguendo un film, quanto piuttosto di trovarsi di fronte ad un video musicale tempestato da richiami ad una realtà parallela, visionaria e psichedelica, come si fosse sotto effetto di qualche sostanza allucinogena. E ci si domanda inevitabilmente quale sia il mondo migliore tra quello reale, brutale, crudele e doloroso, o quello, seppur idilliaco e fittizio, di Jude e Lucy, in cui il loro amore sembra essere la chiave per portare la pace nell’intero pianeta.
Scegliere la via di mezzo vuol dire sempre percorrere la strada più difficile ed è per questo che la dolcezza proverbiale delle fragole ed il loro colore, rosso come l’amore, assumono il significato più macabro che possano comunicare, nella scena che ho interpretato come la più significativa del film. Un campo minato di cuori insanguinati e vite spezzate, un cimitero di vittime crocifisse al servizio della patria.

“Because happiness is a warm gun. Yes it is”
Happiness is a warm gun – The Beatles

12 anni schiavo [Steve McQueen]

Sono un po’ abbattuta in questo periodo (credo lo abbiate capito da soli), cosa che mi ha spinto a declinare un invito al cinema dedicato alla visione di American Sniper, film di Clint Eastwood candidato agli Oscar. Un’altra uscita simile è saltata, sebbene questa volta non per causa mia, quindi anche Birdman (plurinominato agli Academy) per il momento non mi avrà come spettatrice.
Fortuna che il cinema a casa te lo porta Sky (sembrerebbe una promo, ma non lo è), quindi lunedì scorso, giorno dedicato alle premiére, ci siamo visti con i miei la pellicola trionfatrice degli Oscar 2014: 12 anni schiavo.
Ambientato nell’America schiavista dell’800 e tratto da una storia vera, il film narra le vicende di un violinista americano di colore, Solomon Northup, che in un giorno qualunque viene rapito da due mercanti di schiavi spacciatisi per artisti circensi interessati alla sua dote di musicista. Inizia così per il protagonista una discesa verso il basso, la violenza, la crudeltà, l’ingiustizia. Passa di mano e di proprietà di due ricchi latifondisti, ma se il primo è un brav’uomo, retto ed onesto, il secondo è una bestia aggressiva, sadica ed incline alla crudeltà più malvagia. E’ da questa seconda parte del film che provengono le scene più dure e toccanti, così forti che mi hanno costretto a chiudere gli occhi e ritrarre lo sguardo. Ma è proprio in queste scene che emerge la potenza della regia. Si fa prepotente il ricorso ai primi piani e alle scene dilatate, con cambi di inquadrature ma con lo stesso soggetto, immobile, inerme: Solomon che canta, Solomon che piange, Solomon che lotta per la vita mentre è impiccato con una corda ad un albero. La lunghezza delle scene riproduce il tempo effettivo della storia e rende perfettamente il senso dell’attesa e della strenua resistenza di uomini e donne sottoposti ad atrocità a causa solo del colore della loro pelle. Non ho mai visto rappresentato così bene l’odio che i bianchi (certi bianchi) nutrivano nei confronti dei neri come in questo film. Un sentimento terribile, una ferocia ed un astio disumano che quasi esce dallo schermo e ti contorce lo stomaco, facendoti avvertire come tale emozione stia scomoda nel cuore di ognuno. E difatti anche tu ti senti scomodo, ti muovi, ti rigiri sul divano e cambi posizione. La forza del film è proprio quella di entrarti dentro. La bravura degli attori, primo su tutti il protagonista, Chiwetel Ejiofor, ma anche Michael Fassbender, è la ciliegina sulla torta. Un capolavoro sotto tutti gli aspetti.