Faber: cantautore di poesie – La città vecchia

E’ ora di uscire allo scoperto con la mia passione per quel cantautore genovese degli anni Sessanta e Settanta che ha scalzato in poco tempo ogni suo concorrente nelle mie playlist di Spofity e Youtube e ha monopolizzato, con fare da padrone, il vano portaoggetti dell’automobile riempendolo di cd, album, raccolte e collezioni. Alcune sono solo in prestito, altre proprietarie, ma non è questo che conta.  Conta che mi scoppia dentro un entusiasmo folle ogni volta che ascolto la sua voce, mi soffermo sui suoi testi e mi faccio catturare dalla sua musica.

Non immagino sin d’ora un seguito a questo post – ho sempre scritto in modo molto spontaneo, senza pianificazione, senza programmazione di puntate, episodi, sequel o prequel. Non so se questo mio voler condividere con voi testi delle canzoni di Fabrizio De Andrè genererà una rubrica o una sorta di appuntamento fisso sul blog. Lo faccio perché mi va di farlo, ora, adesso, in questo momento.

E non ho, ovviamente, la benché minima pretesa di fornire un’analisi, esegesi o interpretazione di canzoni che da tantissimi esperti sono state a lungo studiate e prese in esame. Si tratta piuttosto di una riflessione personale, come quasi ogni scritto in questo blog, rispetto alle emozioni, le fantasie, le idee che – dicevo prima – mi si scatenano nel profondo ad ogni contatto con Faber.

Eccomi quindi a condividere con voi una delle mie canzoni preferite, tanto per cominciare, che non si fa fatica a paragonare ad una poesia. Ma, del resto, quale delle sue opere musicali non lo è?

LA CITTA’ VECCHIA

Ispirata alla omonima poesia di Umberto Saba dedicata a Trieste, che, tra parentesi, ho conosciuto grazie al mio illuminato professore di Italiano alle scuole superiori, La Città Vecchiadeandreiana dipinge con una pennellata da maestro la folla umana pullulante per i quartieri di Genova, restituendone una immagine lirica e realistica insieme.

Non si tratta dei quartieri borghesi dai quali proviene il rampollo De Andrè, bensì delle zone più malfamate, degradate, quelle evitate con discrezione durante il giorno eppur bramate segretamente la notte. Quelle vie, delle quali la più famosa e resa nota dalla sua opera è stata Via del Campo, che ospitano prostitute, barboni, alcolizzati, criminali, diseredati, i matti della città, i reietti della società. Proprio quei casi umani che Faber ha sempre avuto molto a cuore.

Nei quartieri dove il sole del buon Dio non dà i suoi raggi
ha già troppi impegni per scaldar la gente d’altri paraggi

Con questa introduzione simile ad una cinepresa che cattura una panoramica urbana, ci addentriamo per i vicoli della città vecchia sapendo che attraverseremo zone buie, nascoste e oscure, dimenticate persino da Dio che dà luce solo ai quartieri eleganti e benestanti.
I primi personaggi che incontriamo sono un gruppo di vecchietti che si ritrovano abitualmente e regolarmente allo stesso tavolo dello stesso bar, per passare le giornate a giocare a carte, bere e lamentarsi di tutto quello che non va nel mondo. Probabilmente per circostanza, probabilmente perché ne hanno già dette di tutti i colori nel corso della loro vita, attorno al loro tavolino conversano di donne, clima e politica.

Una gamba qua, una gamba là, gonfi di vino
quattro pensionati mezzo avvelenati al tavolino
li troverai là, col tempo che fa, estate e inverno
a stratracannare a stramaledire le donne, il tempo ed il governo.

Loro cercan là, la felicità dentro a un bicchiere
per dimenticare d’esser stati presi per il sedere
ci sarà allegria anche in agonia col vino forte
porteran sul viso l’ombra di un sorriso tra le braccia della morte.

Ecco che ci imbattiamo ora in un estraneo, un professore, la tipica professione intellettuale vestita degli abiti del perbenismo che dall’alto della sua cattedra giudica i vizi, condanna la perdizione celata negli anfratti della città vecchia. Eppure è la prima persona che si spoglia dei suoi indumenti e si immerge anima e corpo in quel degrado che tanto denuncia, ma che è tremendamente umano e vero. Così recita Faber in queste due strofe a dir poco meravigliose:

Vecchio professore cosa vai cercando in quel portone
forse quella che sola ti può dare una lezione
quella che di giorno chiami con disprezzo pubblica moglie
Quella che di notte stabilisce il prezzo alle tue voglie.

Tu la cercherai, tu la invocherai più di una notte
ti alzerai disfatto rimandando tutto al ventisette
quando incasserai e lapiderai mezza pensione
diecimila lire per sentirti dire “Micio bello e bamboccione”.

Sarà già noto ad alcuni, ma è curioso menzionare come Faber abbia dovuto modificare la rima degli ultimi due versi della prima strofa, visto che il suo messaggio utilizzava inizialmente parole molto più forti e dirette:

Quella che di giorno chiami con disprezzo specie di troia
Quella che di notte stabilisce il prezzo alla tua gioia.

Ecco la parte che più preferisco, sebbene adori in realtà tutta la canzone. Qui Faber riesce con una sola frase – grassettata da me – a far respirare l’atmosfera di una città portuale, far assaporare il gusto del sale sulle labbra, far vibrare la pelle perché pizzicata dalla sapidità dell’aria. Ed io mi inebrio di fumi e profumi, avverto la densità pesante di quella massa trasparente calata sopra le stradine strette, sudate, magari sporche, che si tuffano nel mare.

Se ti inoltrerai lungo le calate dei vecchi moli
In quell’aria spessa carica di sale, gonfia di odori
lì ci troverai i ladri gli assassini e il tipo strano
quello che ha venduto per tremila lire sua madre a un nano.

Infine la morale – cristiana? socialista? non importa – dell’accoglienza e della tolleranza da estendere ad ogni uomo, figlio di Dio o, in una visione più panteistica che forse Faber prediligeva, figlio del mondo, creatura della vita che merita rispetto e dignità.

Se tu penserai, e giudicherai da buon borghese
li condannerai a cinquemila anni più le spese
ma se capirai, se li cercherai fino in fondo
se non sono gigli son pur sempre figli
vittime di questo mondo.

Non mi stancherò mai di ascoltare questo pezzo e indugiare su ognuna delle sue parole, scelte con la cura, l’ironia e l’intuizione che solo un genio può avere. E ancor di più, non riuscirò mai a distaccarmi dalle scene che De Andrè tratteggia come se stesse dipingendo il presepe della sua Genova su tela, in una descrizione che va dal lirismo più assoulto al realismo più crudo, autentico. Non servono mezzi termini, eufemismi, giri di parole. Ma metafore poetiche che hanno il sapore di vero e vissuto, tanto forti quanto dirette e schiaccianti.

Seguendo il ritmo di una scanzonata ballata, allegra e spensierata nelle note musicali, ci troviamo di fronte lo spaccato di una Genova marinaia, portuale, chiassosa e popolosa.
La città vecchia di ogni luogo e di ogni Paese per me rimarrà sempre quel cuore pulsante cantato da Faber.