Faber cantautore di poesie: Non al denaro non all’amore né al cielo

Qualche settimana fa ho partecipato ad un incontro-concerto dedicato al concept album di De Andrè Non al denaro non all’amore né al ciele organizzato al Lettere Caffè di Trastevere.

L’iniziativa è stata davvero interessante e verteva in particolar modo sulle fonti di ispirazione utilizzate da Faber per la stesura dell’album – sapevo già che le canzoni erano tratte dalle poesie contenute in L’Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters – configurandosi come un viaggio cantato e recitato attraverso i riferimenti culturali, storici, filosofici da cui ogni pezzo trae origine.

Vi risparmio i dettagli sul mastodontico impianto culturale dal quale Faber attinge e che fa facilmente intuire quanto il cantautore fosse socialmente e intellettualmente impegnato nei dibattiti del suo tempo.

Mi piacerebbe, infatti, lasciarvi solo alcuni spunti estremamente affascinanti, legati sopratutto alle scelte poetiche di Faber e alla descrizione dei suoi personaggi che si discosta più o meno nettamente dai protagonisti di Lee Masters.

non al denaro, nè all’amore, nè al cielo

Fonte principe del disco, come già detto, è L’Antologia di Spoon River dell’autore americano Edgar Lee Masters, una raccolta di epitaffi – o poesie sepolcrali – che racconta le vicende degli abitanti ormai deceduti di un immaginario paesino statunitense, ora sepolti sulla Collina (dormono, dormono sulla collina...).

Si tratta di un testo che suscita diverse critiche e fa abbastanza scandalo per l’epoca, in quanto i personaggi, ormai non più vittime del conformismo al quale avevano dovuto adeguarsi in vita, confessano i peccati, i vizi, i crimini o, in un’ottica semplicemente più umana, gli errori commessi prima di morire.

Faber dichiarerà:

Avrò avuto diciott’anni quando ho letto Spoon River. Mi era piaciuto, forse perché in quei personaggi trovavo qualcosa di me. Nel disco si parla di vizi e virtù: è chiaro che la virtù mi interessa di meno, perché non va migliorata. Invece il vizio lo si può migliorare: solo così un discorso può essere produttivo.

Al di là delle obiezioni letterarie circa la natura stilistica delle poesie (scritte in versi liberi, senza rime interne, quasi fossero componimenti in prosa), l’opera di Lee Masters giunge in Italia grazie a due mediatori culturali fondamentali, Fernanda Pivano, che si occupa della traduzione, e Cesare Pavese, che ne favorisce e ne incoraggia la pubblicazione.

Faber la conosce quindi da appena maggiorenne, ma si troverà ad approfondire solo in seguito, compiendo un’operazione di studio, selezione, rielaborazione e perfetta sintesi poetica delle storie che porta alla luce.

Nove sono i brani che sceglie, nove sono i pezzi che compongono questo meraviglioso concept album, nove sono i personaggi la cui storia decide di raccontare, aggiungendo quel colore e quella vena ironica e dissacrante propria del suo stile poetico.

Tutte le figure, seppur con una storia individuale ben definita ed una esperienza singolare importante, acquisiscono un valore universale, metaforico e rappresentativo dell’intera condizione umana. Da qui la scelta di Faber di utilizzare l’articolo “un” nel titolo di ogni canzone e dinnanzi ogni personaggio, al contrario di Lee Masters che chiama gli abitanti di Spoon River con i loro nomi propri.

Ecco una lista degli “un” deandreiani con quelle strofe che a mio parere sono di una bellezza commovente, specchio di una visione e di una etica tragicamente umana.

Un matto

Figura dell’invidia, derisa e schernita dal villaggio, e che vive in una doppia luce: la luce che critica, rivela e giudica e la sua luce interiore che risplende di una genuina spensieratezza e purezza.

Tu prova ad avere un mondo nel cuore
e non riesci ad esprimerlo con le parole,
e la luce del giorno si divide la piazza
tra un villaggio che ride e te, lo scemo, che passa

Un giudice

Altra figura che orbita nel nucleo dell’invidia, della rivalsa e del rancore. E’ grazie a questi sentimenti che studia la notte per raggiungere la sua vendetta: compiacersi nel mandare a morte coloro che si beffavano di lui a causa della sua ridotta statura.

Fu nelle notti insonni vegliate al lume del rancore
Che preparai gli esami, diventai procuratore […]

E allora la mia statura non dispensò più buonumore
A chi alla sbarra in piedi mi diceva “Vostro Onore”
E di affidarli al boia fu un piacere del tutto mio
Prima di genuflettermi nell’ora dell’addio
Non conoscendo affatto la statura di Dio

Un blasfemo

Colpevole  – accusato per altri ragioni e non per blasfemia, in quanto non è un reato perseguito dalla legge – di denunciare l’assopimento intellettuale a cui il sistema condanna l’uomo (ci costringe a sognare in un giardino incantato). Come lo fa? Inventandosi un Dio che intimorisce, controlla e punisce Adamo per il peccato originale.

Mi arrestarono un giorno per le donne ed il vino,
non avevano leggi per punire un blasfemo,
non mi uccise la morte, ma due guardie bigotte,
mi cercarono l’anima a forza di botte.

E se furon due guardie a fermarmi la vita,
è proprio qui sulla terra la mela proibita,
e non Dio, ma qualcuno che per noi l’ha inventato,
ci costringe a sognare in un giardino incantato.

Un malato di cuore

L’ultima figura dell’invidia, l’unica che avrebbe tutto il diritto e la piena legittimità a provare un simile sentimento per i ragazzi che corrono nei prati, considerato il suo problema cardiaco. Eppure, consapevole della sua condizione, il nostro malato si lascia andare all’emozione – ahimè, troppo intensa – del bacio. Vive il suo attimo di eternità in quel bacio, con il cuore sulle labbra, impazzito, stordito, ucciso proprio dalla forza di quel momento.

Il “malato di cuore” è Francis Turner nell’Antologia di Spoon River

Da ragazzo spiare i ragazzi giocare
al ritmo balordo del tuo cuore malato
e ti viene la voglia di uscire e provare
che cosa ti manca per correre al prato,
e ti tieni la voglia, e rimani a pensare
come diavolo fanno a riprendere fiato.

Un medico

La prima delle figure della Scienza, che non è libertà né tantomeno strumento di conoscenza. Secondo Faber la Scienza stessa è un mezzo di controllo, asservito al potere; la Scienza non salva le vite e la vocazione umana di curare i malati è inghiottita dal sistema.

Da bambino volevo guarire i ciliegi
quando rossi di frutti li credevo feriti
la salute per me li aveva lasciati
coi fiori di neve che avevan perduti […]

E allora capii fui costretto a capire
che fare il dottore è soltanto un mestiere
che la scienza non puoi regalarla alla gente
se non vuoi ammalarti dell’identico male,
se non vuoi che il sistema ti pigli per fame.

Un chimico

Il chimico vive nel suo mondo, freddo, asettico, fatto di schemi e di regole scientifiche. Spersonalizza la realtà, la disumanizza, fa sposare elementi (cose inanimate) e combinare le persone (umani animati). Muore al servizio della scienza, cui ha dedicato la sua intera esistenza.

Da chimico un giorno avevo il potere
di sposare gli elementi e di farli reagire,
ma gli uomini mai mi riuscì di capire
perché si combinassero attraverso l’amore.
Affidando ad un gioco la gioia e il dolore.

Fui chimico e, no, non mi volli sposare.
Non sapevo con chi e chi avrei generato:
Son morto in un esperimento sbagliato
proprio come gli idioti che muoion d’amore.
E qualcuno dirà che c’è un modo migliore.

Un ottico

Il mestiere dell’ottico è quello di creare lenti per vedere al di là delle cose, per andare oltre e fantasticare ad occhi aperti. Grazie anche alla musica psichedelica nella parte finale (ascoltatela,  è già un pezzo all’avanguardia), si evidenzia chiaramente il riferimento all’uso delle droghe e alla LSD in particolare, responsabile della cosiddetta espansione della coscienza, pur in maniera collettiva e non alienante come avrebbe fatto più tardi l’eroina.

Non più ottico ma spacciatore di lenti
Per improvvisare occhi contenti
Perché le pupille abituate a copiare
Inventino i mondi sui quali guardare
Seguite con me questi occhi sognare
Fuggire dall’orbita e non voler ritornare

il suonatore jones

Il personaggio più buono e puro che conclude questa rassegna di volti e storie. Il suonatore Jones vive la sua vita pienamente, con un cuore colmo di amore e serenità. Lascia le sue terre perché quello che vuole è suonare; ride e muore, senza avere rancoririmpianti.

In un vortice di polvere
Gli altri vedevan siccità
A me ricordava
La gonna di Jenny
In un ballo di tanti anni fa
Sentivo la mia terra
Vibrare di suoni, era il mio cuore
E allora perché coltivarla ancora
Come pensarla migliore
Libertà l’ho vista dormire
Nei campi coltivati
A cielo e denaro
A cielo ed amore
Protetta da un filo spinato […]

Finii con i campi alle ortiche
Finii con un flauto spezzato
E un ridere rauco
E ricordi tanti
E nemmeno un rimpianto

 

The Wolf of Wall Street [M. Scorsese] – Parte I

Lo definiscono una commedia. Commedia nera, per la precisione.
Bah, non è certo un film facile da inquadrare e pertanto mi rimetto al parere di chi ne sa più di me. Ma quella di Scorsese è un’opera multiforme, talmente variegata e sfaccettata, e di una durata così interminabile che non può non lasciarti confuso al termine della sua visione. Personalmente, quando sono uscita dalla sala, non riuscivo a formulare una immediata opinione. Non sapevo proprio cosa pensare.
Adesso, a freddo, dopo aver fatto un giro di ricognizione su internet e aver letto le critiche del pubblico e degli esperti, mi sento in grado di parlarne con maggior cognizione di causa.
Iniziamo dalla trama, la quale può essenzialmente essere riassunta nel percorso di formazione del suo protagonista, nella sua ascesa e discesa nel mondo della borsa, delle transazioni finanziare, delle vendite spudorate di titoli ed azioni, in quel mondo che è anche il trionfo del vizio, del peccato, dell’accanimento per i soldi e della corsa all’eccesso. Jordan Belford, interpretato da un Di Caprio secondo me al di sopra delle aspettative, il broker di successo che getta nel cestino le banconote dei dollari perché non sa cosa farsene e come altro impiegarle, andrà incontro ad una decadenza prima ancora di arrivare in alto. La sua ascesa è, in poche parole, l’inizio del suo declino. Ma certamente non dal punto di vista finanziario: no, lui è il re del mondo in quel senso. Racconta la voce di Jordan all’inizio del film, mentre sullo schermo scorrono le immagini della sua vita sregolata e volta alla ricerca dei più sfrenati piaceri:
“Mi chiamo Jordan Belfort. L’anno in cui ho compiuto 26 anni ho guadagnato 49 milioni di dollari, il che mi ha fatto molto incazzare perchè con altri 3 arrivavo a un milione a settimana.”
No, più schifosamente ricchi non si può. Più sfondati di così è la fine del mondo. Ma Jordan è insaziabile, vuole spingersi oltre, non si accontenta, perde completamente di vista la ricchezza che già possiede e scarica la prima moglie in tre giorni, si fa di droga, si impasticca, sniffa qualsiasi tipo di sostanza possa fargli perdere il controllo. Perché odia essere sobrio.
Da qui comincia la sua fine, la sua disgregazione morale, l’integrità che da broker in erba ancora conservava ma che Wall Street gli strappa via come fosse un giocattolo da ragazzini che i veri uomini non usano più. E via con la dipendenza dall’alcol, dalla droga, dai sedativi e dal sesso. Non ne può fare a meno. Assume droga per vendere al meglio, per caricarsi di chissà quale energia che gli fa portare a casa milioni di dollari in poche ore. Ma come reggere la droga ed i suoi effetti collaterali? Sedativi, pasticche, farmaci. Emblematica la scena in cui egli si ritrova a strisciare e a rotolarsi a terra, vittima dell’eccessivo consumo di farmaci di cui è schiavo: un dosaggio incontrollato di quella roba lo paralizza, gli inibisce i movimenti e, cosa ancora più grave, lo rende un viscido individuo che non sa neanche più parlare. Farfuglia, sbava, il volto si contrae in orrende smorfie. E diventa un animale, un essere insulso privo di umanità. È un animale inutile che striscia e non riesce ad alzarsi, ma è anche l’animale aggressivo, senza paura e senza limiti, dentro gli uffici della sua società di investimenti: un lupo, un leone (il logo della sua azienda), un toro (il simbolo di Wall Street). È una bestia famelica, peccatrice, che si sporca di azioni illegali e malefatte pur di raggiungere la sua ambizione: guadagnare soldi, diventare ricco. Perché non c’è niente da fare, è questa la droga più forte, la sua dipendenza più cronica. Le altre droghe, il sesso, le orge, i divertimenti squallidi e disumani, vengono dopo, sono l’inevitabile conseguenza della brama di denaro, della spasmodica tensione verso il guadagno.

[To be continued… a breve su questi schermi!]