"Pace non trovo e non ho da far guerra" cit.

Quando dico che Leopardi aveva ragione, dico sul serio. Ci aveva preso su tutta la linea, non c’è storia. E vi sfido a trovare una falla nel suo ragionamento.
Se voi sostenete che la vita sia fatta di soddisfazioni, state pur certi che si tratta di attimi irripetibili in un orologio le cui lancette scorrono inesorabili.
E se la felicità appartiene davvero a questo mondo, sarà sicuramente una breve parentesi all’interno di un periodo (non a caso chiamato così anche in sintassi) di nefandezze e sofferenze.
Non avrei mai voluto pronunciarmi in questi termini, ma sento che non c’è niente di più irraggiungibile e sfuggente di un benessere olistico, su tutti i fronti. E se pure dovesse esserci, esso è effimero ed intangibile, inarrivabile e scarsamente percepibile. Non fa nemmeno in tempo a palesarsi che è già sopraffatto da altro, brutalità infinite ed agonie….
Fu solo una magnifica ghirlanda d’alloro intrecciata con nastri di rosso acceso a procurarmi quell’estasi di libertà.

L'attesa, il deserto dell'anima.

Come fa l’Infinito di Leopardi?
Leopardare!

“L’attesa del piacere è essa stessa piacere”, diceva Leopardi diverso tempo fa ed io ho sempre concordato con lui: un modo per prolungare la durata di un piacere è pregustarlo, preconfigurarlo, immaginarlo presente nella nostra mente e dunque esistente, un po’ come le emotions di Wordsworth che, dopo essere state assaporate dal poeta, venivano rivissute, rielaborate in tranquillity. Simile procedimento, però al contrario. Non a caso, comunque, i due poeti condividevano la medesima sensibilità romantica e non è nemmeno un caso che a me piacciano da morire entrambi.
Romantica però non sono, o meglio, lo sono in un’altra accezione, in amore magari; per le cose di tutti i giorni mostro invece una spiccata inclinazione al real… ehm diciamo pessimismo, non deludendo così le più alte aspettative del noto poeta recanatese.
In linea con le mie propensioni, mi domando dunque: se di piacere non si tratta, come si trasforma l’attesa, lo stato di ansia ed agitazione che precede l’arrivo di qualcosa di cui si conosce la forma ma non il contenuto? Diventa come un conto alla rovescia, un fissare nel vuoto, un seguire con lo sguardo la danza impazzita delle lancette dell’orologio, mentre il corpo rimane inerme e la mente si contorce in pieno fermento. Una speranza sempre più lontana, che corrode lenta, ma inesorabile, ti toglie le forze, la volontà, l’intenzione, ti allontana dalla realtà e ti precipita in un vortice infernale di una profondità pari o talvolta superiore alla durata dell’estenuante attesa. All’improvviso ti guardi intorni, non riconosci più nulla, guardi il tuo corpo, le tue mani, le scopri insanguinate, con dita piene di ferite, di tagli e di morsi, unghie spezzate e pelle viva che pulsa nel suo rossore.
E quando finalmente l’attesa finisce, tutto si placa, ogni cosa ritorna al suo posto; un sospiro di sollievo e via, avanti come prima.
Se non conosciamo la natura del piacere, questo non può originare altro piacere, ma al contrario procura dolore, insoddisfazione, disperazione. E se poi il piacere sperato non arriva, non ci saranno limiti alla vastità del deserto della delusione e dell’amarezza che si dipana nel fondo dell’Io.