Serate diverse, serate romane: Pantaleo

Pantaleo – Food, Wine, Mixology, “The place to be”, così recita il claim sui social, uno slogan che incuriosisce e si pone nella direzione di fare tendenza: “il posto in cui stare”, e se non ci sei, ci devi essere. Ci devi andare.

E facciamolo allora, andiamo a vedere di cosa si tratta, con un bel bagaglio di aspettative alimentate dal profilo social super curato e dagli eventi che vengono ospitati nel locale.
Oh yes, questa è la prima cosa che dico quando entro. Ho scelto bene.

pantaleo

Età media sulla quarantina, atmosfera accesa, locale affollato, musica a volume elevato, movimento in sala, nella cucina a vetri e al bancone dedicato al regno del mixology. Inizia tutto con i migliori presupposti. Il bancone lungo al centro del locale, già di per sé evocativo di convivialità, è una distesa di persone che bevono, stuzzicano e si alternano nello stare seduti o in piedi.

Ci fanno accomodare al piano superiore, una piccola area dove sono stati ricavati tre salottini che affacciano sul locale inferiore e si rivelano estremamente confortevoli – d’altronde anche le poltrone rosse a sgabello sembrano molto accoglienti tenendo conto che lo “sgabello” vero e proprio non ispiri esattamente comodità.

Due menù, uno per mangiare, uno per bere. Ma andiamo con ordine.
Ho trovato il menù ben costruito con una varietà di scelte e proposte trasversali, in grado di soddisfare molteplici esigenze, dall’aperitivo alla cena, pantaleoda un brunch al dopocena. Questo, oltre a venire incontro ad una clientela di diverse nazionalità e pertanto diverse abitudini alimentari, dà una chiara identità al locale che si pone come indirizzo ideale per tutte le ore del giorno, evitando quelle situazioni imbarazzanti in cui l’ospite se ne esce con il commento: “In realtà non volevamo mangiare, ma giusto fare un aperitivo …”

La carta dei drink è molto vasta: ci sono pagine e pagine riservate a cocktail più o meno convenzionali ed altrettante pagine dedicate alle proposte della cantina. Ad essere sincera, alla fine dei conti, mi sono fatta consigliare, sarei potuta rimanere almeno 25 minuti buoni a consultare la carta! Ho preferito affidarmi al consiglio esperto della ragazza che si occupa del mixology e che mi ha costruito un cocktail ad hoc in base ai miei gusti.
Quindi: cordialità, professionalità, competenza dello staff top. I prezzi mi sono sembrati nella media, sia per il food che per i drink, considerata l’elaborazione dei piatti e l’audacia di alcuni cocktail, peraltro presentati con cura e gusto. Noi abbiamo mangiato pulled pork, capesante e julienne di carciofi crudi con olive e pecorino: ottimi davvero.

Mi è piaciuta la possibilità di affiancare i cocktail ai piatti presentati, nella nuova frontiera dell’abbinamento mixology & food.
Mi é piaciuta la location, l’atmosfera, l’arredamento e la struttura del locale.
pantaleoMi è piaciuto il personale, mi è piaciuta la qualità di quello che ho mangiato e bevuto – l’ho già detto, lo so.
Mi è piaciuto Pantaleo e ho già in mente di tornarci in un orario diverso, alla luce del giorno, con meno confusione e affollamento, sebbene il nostro angoletto non abbia minimamente risentito, in termini di comfort e riservatezza, del movimento concitato del resto del locale.

È proprio il caso di dire, citando l’idea di una recente canzone per la quale “si torna sempre dove si è stati bene”, che Pantaleo è “The place to return”.

Serate diverse, serate romane – Mavi

Avete mai acquistato un libro solo per la copertina, visto un film solo per il titolo o assistito ad uno spettacolo teatrale in base alla sua locandina?
Ecco, noi abbiamo scelto Mavi in base al nome. E’ nato tutto per gioco, ma poi le regole ci sono piaciute. Ovviamente non abbiamo mancato di informarci online prima di prenotare, ma devo dire che le ottime recensioni degli internauti sono state confermate dalle nostre impressioni subito positive sul locale.

Iniziamo dal nome, perché si tratta di una donna, amica dei proprietari, molto legata ad una sua parente francese, una zia che amava chiamarla “Ma vie”, “La mia vita”.
Da questo dolce e affettuoso appellativo è derivato il nome del ristorante, da qualche anno trasferitosi nella attuale location che lo ospita sul Lungotevere di Pietra Papa, zona ex Città del Gusto.
Il locale è accogliente, curato, con quel tocco di moderna eleganza che non guasta e che ultimamente si ritrova nei bistrot o nei pub di nuova apertura: tavoli di alluminio e ferro battuto apparecchiati con tovagliette, sedie reclinabili in stile canteen diverse tra loro, lampadine che scendono lunghe e nude dal soffitto, sgabelli molto urban e banconi più alti che movimentano l’armonia della sala. La luce tenue, comunque ben studiata, aumenta la sensazione di calore e piacevolezza che si avverte. Le dimensioni sono contenute e il servizio è affabile, amichevole, molto presente sin dall’accoglienza.
In entrata un bancone bar e un reparto mixology a vista ci fa presagire che il locale è molto frequentato anche per il dopo cena. Ma la cucina stessa ci lascia assai soddisfatti.
Ordiniamo sei degli otto antpasti presenti in carta, spaziando tra carne, pesce e prodotti caseari (a giudizio dell’intera tavola, il polpo, le polpette di baccalà e la mozzarella di bufala fritta si aggiudicano il riconoscimento di migliore entrée), e poi ognuno prosegue con il suo piatto. Prediligiamo i primi, tra farfalle fatte in casa ripiene di gamberi, fiori di zucca e salsa cacio e pepe, gnocchetti di bottarga in crema di piselli e spaghettoni Mancini alla carbonara (la portata meglio realizzata!).
Buono anche il cestino/sacchetto del pane, con una focaccia genovese eccezionale. Qualche carenza nella carta dei vini che non propone vini rosati e che presenta etichette non effettivamente disponibili all’ordinazione.

Veniamo al capitolo dolci che, sapete, mi sta  molto a cuore. Ogni volta che leggo un menù dei dolci, vorrei farmi solleticare da qualche proposta insolita, sono sempre molto attratta dalle creme ed in particolare dal cioccolato, ma non disdegno  i dessert meno tradizionali, anzi. Cerco di evitare i grandi classici: tiramisù, millefoglie, semifreddi, crema catalana. Stavolta mi faccio convincere da un’amica che mi chiede di smezzare un tiramisù,  ma quando il cameriere si presenta con due piatti e due porzioni, accetto – non così a malincuore – di accaparrarmi una porzione intera. E’ un grave peccato rimandare indietro una portata, seppur si tratta di un errore della cucina, e il crimine è ancora più imperdonabile se ovviamente parliamo di un dolce…
Ora, il tiramisù fai-da-te sarebbe un affronto per i cultori di questo dolce, i quali sostengono che il tiramisu debba essere cremoso, ma compatto, amalgamato negli ingredienti e poi abbattuto, per evitare che il biscotto non comunichi con il caffè, il caffè con la crema e la crema con tutto il resto. E’ vero, non si può controbattere, ma è anche vero che va apprezzata l’originalità di una presentazione fuori dal comune, specialmente per un dessert che è tra i più rivisitati e reinterpretati del mondo, presentato nei contenitori più insoliti, dai vasetti alle ciotole di terracotta, ai barattoli di vetro usati tipicamente per le composte, le marmellate e la conservazione degli alimenti.
Il tiramisù di Mavi ha la crema dentro un barattolino, il caffè dentro la sua moka, i biscotti adagiati sul piatto e la ciotola dove andrebbero composti i vari strati leggermente sporcata di cacao, disponibile in quantità maggiore dentro un dispenser al centro del vassoio degli ingredienti. Okay, se gli ingredienti potrebbero risultare un po’ slegati tra loro, va ammesso che si sta gustando un altro dolce, un dolce a sé, che non rispetta i canoni tradizionali e che di tradizionale ha solo il nome. Ma mi è piaciuto, una porzione intera era d’obbligo.

In ogni caso, immagino che il rapporto tra innovazione e tradizione, sperimentazione ed aderenza a ricette e gusti originali sia un tema di grande dibattito nel mondo della gastronomia.
Io non sono una purista ed una integralista della cucina, mi piace la varietà, la ricerca, apprezzo il tentativo di azzardare e modificare, rielaborare stili noti e già visti. Non mi faccio nemmeno entusiasmare da una carbonara descritta come “nido intrecciato di spaghetti avvolti in una emulsione di uovo, pepe e parmigiano bagnata da una pioggia di gocce di pancetta croccante” perché di nessuna novità si tratta.
Giudico una esperienza per quella che è, una cena per le emozioni che mi trasmette ed un cibo per la piacevolezza che ricavo nel degustarlo e assaporarlo. Da Mavi mi ho amato la proposta gastronomica, la qualità e la realizzazione dei piatti. Mi è piaciuta l’atmosfera ed ho passato una bella serata. Ci tornerei.