Un anno fa, c'eri tu.

E’ arrivato il giorno 11. Di già.
E’ già arrivato. E’ già passato un anno dal giorno 11 di un anno fa.
La prima cosa che ricordo nitidamente è il tuo abbraccio, forte ed affettuoso allo stesso tempo, con quel pancione che mi metteva tanta simpatia e quegli occhi celesti così buoni e dolci…
Gli occhi, gli stessi che ritrovo sulla tua foto, ma che non riesco nemmeno a guardare troppo a lungo. La vista si riempie di lacrime e come un velo queste annebbiano il mio sguardo. Ogni cosa perde forma, perde il suo vero colore.
Quando tutto sembra non avere più alcun senso, riaffiora la tua immagine dall’abisso dei ricordi e ti vedo di nuovo come per sempre avrei voluto vederti.
Porti una camicia a maniche corte ed un calzoncino fino al ginocchio. Sorridi, un po’ abbattuto forse, ma mai troppo debole. Il cappello e la sua visiera non possono mancare, così come il tuo fedele compagno di passeggiate, prima Sissi e poi Winnie, quando riuscivi ancora a muoverti senza sforzo. Uscivi. Uscivi per portare a spasso il cane, per fare la spesa, andare al mercato o accompagnare i nipoti a scuola. E venivi a trovarci al mare, ci salutavi al di là della recinzione, quando sull’altalena passavo ancora tutte le mie giornate.
In fondo adesso cosa cambia? Quei tempi sono passati da anni, e quegli anni sono ormai andati via col tempo. L’assenza già c’era, prolungata ma mai infinita. Troppo a lungo siamo stati distanti, troppo tardi quando ce n’era bisogno… In fondo cosa costava una telefonata? Noia, pigrizia, scarsa forza di volontà. Minuti preziosi da dedicare a qualcuno che non è meno prezioso di noi. Qualcuno che non è invincibile, qualcuno che non ci sarà per sempre.
Niente è più importante, niente è così essenziale. Tutto collassa, tutto sprofonda in un baratro. Ciò che conta, spesso non c’è più.

Così ti ho sognato…

E così ti ho sognato. Per la prima volta in questi 5 mesi. O almeno la prima che ricordi così vividamente.
Bussavi alla porta. La porta delle vecchia casa, che prima di raggiungerla dovevi percorrere tutto il corridoio…
Quando ti ho aperto, non volevo farti entrare: ho visto il diavolo incarnato in te, il diavolo di fronte a me.
Ma poi è arrivata nonna, nonna dalla porta di fronte, dall’altra parte del pianerottolo. Lei che il diavolo lo rifugge all’istante, e non potevo non fidarmi…
Sei dunque entrato, il berretto sulla pancia, camicia a maniche corte e calzoncini come sempre. Tutto aveva il tuo sapore, come era dunque possibile?
Nonna che mi ripeteva: “Very, Very, com’è non ci credi?” E quando lei usa questo verbo, lo intende nel suo più profondo significato spirituale, anche se per me non erano che parole vuote…
Continuavo a guardarti negli occhi, in silenzio, a interrogare me stessa sulla veridicità di tutto ciò che vedevo, sul senso di tutto che avevo già visto. Finché non te l’ho chiesto apertamente, balbettando, incredula delle parole che stavano uscendo dalla mia bocca…
E ti sei messo sdraiato, hai simulato tutta la scena, mi hai detto che era tutto risolto, eri più nuovo di prima. Ma il cimitero, la nonna (l’altra), la Messa…?
Ogni cosa era così dannatamente reale, impossibile pensare che fosse finzione, incredibile vederti nuovamente in piedi, in carne ed ossa, come non sono riuscita a salutarti…
Mi sono svegliata, maledetto sogno, pensieri in tornado, cristallizzati sul tuo volto.
E se fosse questa realtà la vera illusione?