Faber cantautore di poesie: Sally

Credo ci siano canzoni il cui significato è universale, non geograficamente ma umanamente parlando.
Sono valide, applicabili per ognuno di noi, in ogni ambito o fase della vita. Con ciò non intendo sostenere che siano scontate, ma certo è difficile non identificarsi nelle parole struggenti legate alla fine di un amore, di una storia, di una relazione sentimentale. Si tratta di canzoni che parlano di verità e stereotipi nei quali tutti noi, in un modo o nell’altro, ci riconosciamo.

Esistono poi quelle canzoni più affascinanti, interessanti e a mio avviso così intriganti, dotate di un valore strettamente personale e un significato che trova corrispondenza solo per alcuni di noi, in certi momenti precisi della nostra vita.
Sally di Fabrizio De Andrè è, per me, una di queste.

Ovviamente sappiamo come i testi di Faber siano apprezzabili da un pubblico adulto, e poco importa che da piccola mia madre mi faceva ascoltare la sua voce in macchina alzando a tutto volume (ma mai così eccessivo) l’album riarrangiato con la PFM. Poco conta che Volta la Carta parli di Angelina che si diverte a girare le carte dei suoi ricordi in una filastrocca che ha come protagonista perfino Madama Dorè, o che Andrea sia un bel ragazzo con i riccioli d’oro, dal fascino alquanto bucolico e fiabesco, o che Bocca di Rosa si giochi su rime che ricordano anche bambini. È chiaro che De Andrè necessita di interlocutori “maturi”, in grado di penetrare i molteplici significati trasmessi dalle sue canzoni.

Tornando all’album con la PMF, è un vero peccato che all’epoca mia madre avesse solo il primo volume – e che ve lo dico a fare – contenente già pezzi di un certo spessore come Il Pescatore, Un Giudice, La canzone di Marinella, Bocca di Rosa, Amico Fragile.
Il secondo volume della collezione si apre con Sally, rielaborata e riarrangiata partendo dal pezzo originale presente nell’album Rimini.

Ecco, Sally è una di quelle canzoni che non puoi capire da bambino e che, anche cresciuto, non ti accontenti di ascoltare e canticchiare ripetendo parole vuote e prive di senso.
È un brano che ho cercato di studiare e interpretare leggendo commenti in rete, ma mi sono accorta della sua presa su di me solamente vivendo nel profondo quel desiderio di esplorare il bosco, scuro e con l’erba alta, per giocare all’aperto con zingari e sconosciuti. Ho sperimentato il richiamo del tamburello e assecondato il mio istinto di esplorare il mondo traghettata da una sponda all’altra della vita grazie a un pesciolino cieco e dorato. Un coltello in mezzo ai seni l’ho avuto, anche quello, e quando mi sono guardata allo specchio ho visto riflessa la mia immagine di assassina. L’eroina? Quella no, non l’ho provata. L’adrenalina sì, però. E un bacio sulla bocca che ha fatto sfumare tutto il resto, in un baleno, frantumando la fortezza che proteggeva la mia ostinata perfezione.
La strada della perdizione è ormai intrapresa.
Dite a mia madre che non tornerò.

Vi lascio il testo di Sally, incredibilmente bella, drammaticamente cruda e tremendamente umana, come solo Faber sa essere.

Mia madre mi disse – Non devi giocare
con gli zingari nel bosco.
Mia madre mi disse – Non devi giocare
con gli zingari nel bosco.

Ma il bosco era scuro l’erba già verde
lì venne Sally con un tamburello
ma il bosco era scuro l’erba già alta
dite a mia madre che non tornerò.

Andai verso il mare senza barche per traversare
spesi cento lire per un pesciolino d’oro.
Andai verso il mare senza barche per traversare
spesi cento lire per un pesciolino cieco.

Gli montai sulla groppa sparii in un baleno
andate a dire a Sally che non tornerò.
Gli montai sulla groppa sparii in un momento
dite a mia madre che non tornerò.

Vicino alla città trovai Pilar del mare
con due gocce d’eroina s’addormentava il cuore.
Vicino alle roulottes trovai Pilar dei meli
bocca sporca di mirtilli un coltello in mezzo ai seni.

Mi svegliai sulla quercia l’assassino era fuggito
dite al pesciolino che non tornerò.
Mi guardai nello stagno l’assassino s’era già lavato
dite a mia madre che non tornerò.

Seduto sotto un ponte si annusava il re dei topi
sulla strada le sue bambole bruciavano copertoni.
Sdraiato sotto il ponte si adorava il re dei topi
sulla strada le sue bambole adescavano i signori.

Mi parlò sulla bocca mi donò un braccialetto
dite alla quercia che non tornerò.
Mi baciò sulla bocca mi propose il suo letto
dite a mia madre che non tornerò.

Mia madre mi disse – Non devi giocare
con gli zingari nel bosco.
Ma il bosco era scuro l’erba già verde
lì venne Sally con un tamburello.

Principe Libero [Luca Facchini]

Ho anticipato qui che la settimana scorsa ho assistito alla prima di Principe Libero, film documentario su Fabrizio De Andrè, proiettata al multisala Barberini di Roma e in onda sulla rete Rai nel prossimo mese.
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Il mio rapporto con De Andrè inizia davvero da quando sono bambina, e da quando mia madre mi faceva ascoltare il suo album con la PFM durante ogni viaggio in macchina. È chiaro che nella mia giovane età mi sono persa un sacco di cose e moltissimi significati trasmessi dalle sue canzoni, ma senza dubbio, in tutti questi anni, non mi sono mai levata dalla testa le sonorità di Bocca di Rosa, il Pescatore, la Guerra di Piero, Andrea, Volta la Carta.
Con il tempo ho poi iniziato ad apprezzare più a fondo il cantautore ed il suo genio a dir poco poetico nella scelta delle parole e nelle meravigliose rime costruite con queste. E mi sono avvicinata a La canzone dell’amore perduto, Susanna, La canzone di Marinella, La città vecchia, Dolcenera.
Il film biografico ripercorre la vita del grande cantautore, dalla sua giovinezza avventurosa vissuta al contempo tra i vicoli di Genova e gli appartamenti sfarzosi dei circoli altolocati (che frequentava, di riflesso, per la sua famiglia ed il fratello avvocato), passando per la sua maturità artistica ed il matrimonio con la prima moglie (dalla quale riceve il figlio Cristiano), fino ad arrivare al periodo sardo, trascorso insieme alla seconda moglie Dori Ghezzi e la figlia Luvi in una villa rurale immersa nella campagna della Gallura.
La durata notevole del documentario, 200 minuti, permette di coprire con accurata precisione e prezioso approfondimento quasi 40 anni di vita di De Andrè e si presta molto agli schermi televisivi e ad una programmazione in due episodi. Vederlo interamente al cinema, in un’unica serata, per quanto la sala del Barberini fosse assolutamente accogliente, è stato a lungo andare un tantino faticoso.
Ma la passione che mi ha lasciato quel film, appena uscita dalla sala e non solo, anche nei giorni successivi, poche pellicole sono riuscite a farlo. Come ho sostenuto più volte, certe manifestazioni d’arte, al pari di uno spettacolo a teatro o un concerto, per non parlare di un viaggio o di una esperienza gastronomica, ti si appiccicano addosso e ti rimbombano nel cuore, negli occhi e nelle orecchie per diverso tempo, diventando in qualche modo un pezzo di te.
E hai voglia di approfondire, di scoprire ancora di più, di essere nuovamente cullato dalla bellezza percepita e sperimentata, ravvivandola nella memoria e nelle emozioni.
Fino ad oggi, i versi, le note, le sonorità di Faber (soprannome attribuitogli dal suo storico amico Paolo Villaggio, in onore dei colori pastello che il cantautore amava) non mi hanno mai lasciata sola, merito anche di un interprete, e di interpreti, che hanno saputo onorare magnificamente un artista del suo calibro.
Luca Marinelli è un mostro sacro dello schermo. A fronte di uno studio e di una analisi, suppongo molto approfondita, del personaggio De Andrè, Marinelli lo calza a pennello negli atteggiamenti, nella postura, nei gesti e nelle movenze, ma anche nell’incarnazione del suo spirito, così irriverente, ribelle ed anarchico, spesso tormentato e tenebroso. Inquieto e a tratti schivo, nella vita e sul palco, durante le sue esibizioni introspettive e di fronte ad un pubblico davanti al quale non amava apparire.
La sigaretta, il bicchiere pieno di alcool e la chitarra, i migliori compagni nella sua estasi creativa, nei suoi momenti di pura genialità e di massima espressione poetica, sono tratteggiati con una delicatezza magistrale nel film, inquadrati con cura e ricercatezza, quasi a diventare parte integranti, appendici e componenti essenziali del personaggio.
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Lavora bene tutto il resto del cast, che interpreta le figure più significative che hanno gravitato intorno a De Andrè.
Lavora bene la città di Genova con i quartieri della città vecchia, i belvedere, gli ambienti borghesi (quanta insofferenza per questo mondo covava Fabrizio!), le bettole ed i banconi dei bar, le vie frequentate da prostituite ed infine il porto ed il mare, cuore pulsante del capoluogo ligure ed elemento cui De Andrè era profondamente legato.
Una relazione viscerale emerge anche con la campagna, il mondo rurale, il bestiame e la terra sarda, protagonista di moltissimi suoi pezzi, tra cui Hotel Supramonte, concepita durante il rapimento di 4 mesi da parte di un gruppo di dodici briganti (così si legge sulle cronache dell’epoca, il film riduce il numero a due).
Insomma, è vero che a mio avviso le biografie sono sempre interessanti e piacevoli da conoscere, ma questo film in particolare si fa espressione di un genio artistico di cui esplora le mutevoli sfaccettature – cosa non facile – ed i tenebrosi tratti della personalità.
Uomo, marito, padre, artista nato e quasi immediatamente riconosciuto. Cantautore, poeta, impressionista della musica e pittore delle parole. Talentuoso con la chitarra, impeccabile nelle rime, meno integro nei suoi vizi smodati di consumo di fumo e di alcol.
Ma d’altronde, si sa, essere dannati non vuol dire necessariamente essere brillanti, ma per esprimere pienamente il genio, ritengo che una mente sana debba necessariamente lasciar spazio a una qualche forma di perversione. Si parla o no di artisti e poeti maledetti? Ecco, De Andrè, secondo me e a suo modo, lo era.
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